Venendo ora alle canzoni del periodo 1821-22, il primo fatto importante da indicare è che si tratta di un ciclo, cioè in esse si sviluppano motivi di fondo fra loro collegati, c’è un crescere di poesia provocato da un attrito intenso che passa da componimento in componimento, per cui le singole poesie vanno valutate entro questa loro continuità, questi loro raccordi e passaggi, entro lo stimolo che a ogni nuova poesia viene dalla precedente.
Vedere queste poesie come un ciclo giova quindi anche a dare la prospettiva migliore di lettura, quella della giusta collocazione cronologica di successione, che il Leopardi ruppe solo in un caso, anteponendo l’Inno ai Patriarchi all’Ultimo canto di Saffo. Anche se si possono ben capire le ragioni di questa inversione, operata in vista di un disegno piú ideale e vasto per sottolineare l’affinità tra il tema di Alla Primavera e dell’Inno ai Patriarchi; tuttavia la retta successione cronologica di questi canti (cioè Bruto minore, Alla Primavera, Ultimo canto di Saffo e Inno ai Patriarchi) è non solo corrispondente a una correttezza di successione cronologica, ma è molto piú proficua ai fini dello stesso esame della poesia leopardiana di questo periodo.
Come vedremo infatti, la collocazione di Alla Primavera tra Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo costituisce anche la spiegazione migliore del passaggio di tono e di risultato che indubbiamente c’è tra Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, nelle cui componenti di ricca sensibilità e di maggiore misura rifluisce appunto l’esercizio del canto intermedio Alla Primavera; mentre l’Inno ai Patriarchi, collocato nel suo giusto ordine cronologico, alla fine di questo ciclo, verifica lo spengersi e il diluirsi della poesia dopo l’Ultimo canto di Saffo: una posizione, cioè, di ripiegamento e in certo modo di battaglia di retroguardia che non è quella piú persuasa e piú intensa di Alla Primavera.
Occorre anche osservare preliminarmente che la base di poetica su cui si apre questo ciclo, cioè la nuova esigenza leopardiana di intervento pubblico (che già Leopardi aveva esercitato attraverso le canzoni patriottiche del 1818 prima e poi anche in Ad Angelo Mai), la forte spinta volontaristica e pragmatica perderà i suoi margini piú esterni e la poesia verrà approfondendosi nei temi e nel linguaggio dal Bruto minore in poi.
D’altra parte, se quel programma comportava indubbiamente dei rischi e dei limiti di eccessivamente programmatico, di forzato in un linguaggio che spesso ha forme troppo inarcate ed erette, nella sua ricerca di rapidità e concisione (limiti avvertibili soprattutto nelle due prime canzoni), tuttavia anche questo programma era indubbiamente la spinta e la molla necessaria per avviare la poesia leopardiana di questo periodo (connessa d’altra parte a tutte le ragioni interne, evidenti nei pensieri sullo stile e sul linguaggio) a un impegno nuovo e a un ulteriore sforzo di creazione di linguaggio poetico originale.
Le mete alte della poesia leopardiana saranno raggiunte piú avanti nel tempo, ma quel linguaggio che giungerà a forme tanto piú intime, sobrie e caste, aveva bisogno, per chi voglia capirne l’origine e la complessità, di questo esercizio, di questo impegno.
Il linguaggio di queste canzoni si lega a quel tipo di classicismo moderno che Leopardi perseguiva, ma in una direzione assai spostata rispetto a quella del vero e proprio neoclassicismo: il linguaggio leopardiano non tende tanto alla levigatura e smaltatura neoclassica, a cui tendeva il neoclassicismo anche nelle sue forme piú alte, ma piuttosto a un classicismo piú risentito e piú ricco di impasti e di toni.
Le prime due canzoni, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone[1], hanno una loro base piú comune in una spinta piú volitiva, nel raccordo anche con l’attualità, nel tema della patria decaduta e quindi nel contrasto tra l’esemplarità del passato greco-romano e la decadenza di un’epoca corrotta dall’eccesso della ragione. Base comune che si riscontra anche in un abbozzo in prosa, che risale al 1820, intitolato significativamente Dell’educare la gioventú italiana; già il titolo esprime la prospettiva pragmatica e pedagogica. E infatti entrambe le canzoni, e in particolare la prima, puntano fortemente sul motivo dell’educazione. Ciò che si chiede a Paolina, o alle donne italiane in genere, è un’educazione forte e virile dei giovani, i quali per il Leopardi costituiscono la sola zona (nella generale decadenza italiana) su cui si può puntare e costruire per capovolgere la situazione presente. Una zona intatta, quella dei fanciulli, dei giovani, che conservano ancora un «natio vigore», contraddistinti in Nelle nozze della sorella Paolina da una delle piú alte espressioni dell’entusiasmo leopardiano quale «la sacra fiamma di gioventú».
Oltreché per questa persuasione del valore dell’educazione, l’abbozzo è pure interessante per l’accenno (del resto convalidato dai pensieri dello Zibaldone) «sul gusto dell’ode 21.3 d’Orazio»: cioè queste prime due canzoni nascono nella vicinanza all’esempio oraziano:
Questo tempo è gravido di avvenimenti: ricordanze de’ fatti passati: grandi pensieri: calor d’animo ec. non lo sprecate: la generazione che sorge ne profitti per cura vostra. Quando ci libereremo dalla superstizione dai pregiudizi ec. quando trionferà la verità il dritto la ragione la virtú se non adesso? Quando risorgerà l’amor della patria? quando? sarà morto per sempre? non ci sarà piú speranza? Io parlo a voi: ricordatevi che fortes creantur fortibus et bonis. Ora ora è ’l tempo da ritrarre il collo dal giogo antico e da squarciare il velo ec. O in questa generazione che nasce, o mai. Abbiatela per sacra, destatela a grandi cose, mostratele il suo destino, animatela.[2]
Questo abbozzo, che poi prosegue indicando anche dei possibili elementi di appoggio (come quello di Virginia, poi effettivamente incluso nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina), verifica dunque ulteriormente la carica di disperazione, di speranza, di volitività da cui nascono queste canzoni. La seconda delle quali, tuttavia, verrà presentando anche uno sviluppo ulteriore: vedremo, nel passaggio tra le due canzoni, come Nelle nozze della sorella Paolina si chiuda con una prospettiva, seppur indiretta, di speranza, attraverso la storia di Virginia che ha sollecitato i Romani a ribellarsi, a rivendicare la libertà, mentre in A un vincitore nel pallone il poeta accentuerà il carattere pessimistico che si risolverà in quell’energico e disperato appello all’azione, all’azzardo che è la punta piú esasperata e disperata del vitalismo leopardiano.
Nelle nozze della sorella Paolina accentua questa prospettiva civile e patriottica in una accezione morale, da cui nasce anche quella specie di doppia gamma di espressioni che dominano in gran parte questa canzone, cioè le espressioni che indicano lo sdegno morale contro la situazione presente e le espressioni che indicano l’entusiasmo per una diversa forma di vita vagheggiata nel lontano passato greco e romano.
Si notino espressioni di estremo accento morale: «l’obbrobriosa etate», «L’empio fato», «Il corrotto costume», il «nefando stile di schiatta ignava e finta», «le assonnate menti», «La vergognosa età»; e, dall’altra parte, espressioni come: «La santa fiamma di gioventú»; «il valor natio», la «pura [...] alma».
Per ciò può essere interessante ricordare un pensiero dello Zibaldone proprio di questo periodo, in cui Leopardi insistendo sul fatto che tutta la vita, e quindi anche in certo modo la poesia, è animata e dominata dal contrasto, dice:
Tutto è animato dal contrasto, e langue senza di esso. Ho detto altrove della religione, de’ partiti politici, dell’amor nazionale ec. tutti affetti inattivi e deboli, se non vi sono nemici. Ma la virtú, o l’entusiasmo della virtú (e che cosa è la virtú senza entusiasmo? [...]) esisterebbe egli, se non esistesse il vizio? Egli è certissimo che il giovane del miglior naturale, e il meglio educato, il quale ne’ principii dell’età alquanto sensibile e pensante, e prima di conoscere il mondo per esperienza, suol essere entusiasta della virtú, non proverebbe quell’amor vivo de’ suoi doveri, quella forte risoluzione di sacrificar tutto ai medesimi, quell’affezione sensibile alle buone, nobili, generose inclinazioni ed azioni, se non sapesse che vi sono molti che pensano e adoprano diversamente, e che il mondo è pieno di vizi e di viltà, sebbene egli non lo creda cosí pieno com’egli è, e come poi lo sperimenta. [2156-2157][3]
È un pensiero interessante per capire come queste canzoni, e in particolare la prima, tra l’entusiasmo per la virtú e lo sdegno e l’odio per il vizio e la corruzione presente, siano animate e imperniate su un forte contrasto, senza di cui per il Leopardi la vita langue, tutto langue, la poesia stessa langue.
Nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina questo contrasto, traducendosi nelle condizioni particolari del linguaggio, in forme di ricerca di difficoltà espressiva, assume toni a volte eccessivamente forzati, cerca forme eccessivamente elaborate, seppure con l’intento poetico di mettere in moto la mente e l’animo del lettore. Ma, una volta indicato in queste forme di linguaggio piú forzate e come eccessivamente difficili e inarcate, il limite della canzone, va però sottolineato che le sue parti giustamente e concordemente indicate come le piú poetiche, e soprattutto l’episodio celebre di Virginia, non nascono stranamente e miracolosamente entro un contesto tutto diverso, tutto pesante e oratorio, ma invece come approfondimento e fusione di questo contrasto che anima tutta la poesia.
Essa nacque sulla spinta di un’occasione, di un avvenimento concreto, particolare, privato, le sperate o immaginate nozze della sorella Paolina che doveva andare sposa alla fine del ’21 a un certo signor Peroli di Sant’Angelo in Vado e lasciare cosí la casa paterna. Le nozze non avvennero e furono anche l’inizio di vicende complicate della vita della famiglia Leopardi con successivi tentativi, tutti falliti, di dar marito alla fanciulla.
Naturalmente sarebbe sbagliato non sentire quello che dall’occasione immediata poteva passare come arricchimento nella stessa canzone; specie nell’inizio, l’occasione porta nella poesia certa sfumatura, certi toni piú chiaramente affettuosi che sono legati al forte legame sentimentale tra il poeta e questa, di poco piú giovane, sorella.
A integrazione biografica sia detto che Paolina e Carlo erano i piú vicini a Giacomo nella sua situazione dolorosa, di solitudine rispetto ai genitori; tra l’altro, Paolina era non solo una persona estremamente sensibile, ma era anche interessata alla letteratura, almeno come lettrice; e potrà essere interessante, come spunto utile per comprendere la stessa canzone, ricordare che Paolina era appassionata di un tipo di romanzi romantici e in particolare della narrativa stendhaliana. Nel 1832 Leopardi, scrivendo alla sorella da Firenze, dirà: «ho riveduto qui il tuo Stendhal»[4], sottolineando cosí l’intensità del rapporto della lettrice con lo scrittore, che ci permette di cogliere la figura di Paolina qui rievocata, non solo nelle tinte affettuose con cui nella poesia di essa si parla, ma anche nella sua vicinanza e partecipazione alla stessa concezione vitale che Leopardi difendeva, attraverso questa significativa preferenza per Stendhal, l’autore non solo dei noti romanzi, ma anche di quelle Chroniques italiennes che sono tutte un’esaltazione dei forti sentimenti e delle forti passioni.
La poesia si articola in una prima parte (le prime due strofe) in cui l’aggancio immediato è con l’occasione: si immagina Paolina che sta per abbandonare la casa paterna e per immergersi nella vita. Questo avvio è ricco di elementi affettuosi, di colloquio, che verranno piú tardi, nel corso della poesia, un po’ a disperdersi, per riprendere poi piú intensamente nel colloquio con Virginia.
All’inizio della poesia, conseguentemente alle idee di poetica del Leopardi di questo periodo, la costruzione non è esemplata nelle forme monumentali di certe poesie di tipo petrarchesco, ma ricerca appunto un tipo di canzone-ode in qualche modo piú celere, piú rapida, con strofe in generale piú brevi, ricche di settenari:
Poi che del patrio nido
i silenzi lasciando, e le beate
larve e l’antico error, celeste dono,
ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido,
te nella polve della vita e il suono
tragge il destin; l’obbrobriosa etate
che il duro cielo a noi prescrisse impara,
sorella mia, che in gravi
e luttuosi tempi
l’infelice famiglia all’infelice
Italia accrescerai. Di forti esempi
al tuo sangue provvedi. Aure soavi
l’empio fato interdice
all’umana virtude,
né pura in gracil petto alma si chiude. (vv. 1-15)
Questa strofa è indicativa del programma che Leopardi persegue, imperniata com’è, al di là del suo avvio affettuoso, sul forte senso della responsabilità di cui egli carica la sorella, che deve prendere coscienza della situazione storica in cui essa si trova a sposarsi e a mettere al mondo dei figli.
D’altra parte, dal punto di vista della costruzione del linguaggio e dello stile, la strofa è già prospettata in forme che tendono alla concisione, all’energia e che si avvalgono proprio (alla stregua di quanto il Leopardi aveva detto nei pensieri sullo stile rapido e conciso) di inversioni, di ellissi, di forme elaborate, di «moderata» difficoltà, come egli diceva (che in realtà a volte toccano una vera e propria difficoltà).
L’accento iniziale è di carattere affettuoso, ricco anche delle consonanze di una poesia legata al senso del vago, della nostalgia: il «patrio nido», «I silenzi», «le beate larve», «l’antico error», l’«ermo lido». C’è come un ripresentarsi di Recanati e della casa paterna in chiave affettuosa, lungi dallo sdegno altre volte esercitato dal Leopardi contro il «natio borgo selvaggio».
Poi prevale subito il motivo animatore della canzone, la delusione storica e la rivolta a questa situazione: «l’obbrobriosa etate [...] impara»; si noti, come esempio del linguaggio della canzone, il duro latinismo «impara» (cioè impara ad apprendere, a conoscere), che Leopardi adopera secondo questo senso piú conciso, offertogli dalla forma latina qui ripresa e molto pertinente allo stile energico su cui egli insisteva.
«Sorella mia [...] accrescerai»: qui si noti anche il solito gusto della ripetizione che viene ad accrescere il senso di elaborazione del linguaggio, che evidentemente in questa fase cerca di allontanarsi il piú possibile dalla facilità, dal carattere piú consueto, piú prosastico, e non tanto sulla via della dorata patina neoclassica, ma piuttosto adottando forme studiate ed elaborate.
«Di forti esempi / al tuo sangue provvedi»: la poesia si svolge proprio su questi toni di esortazione, di linguaggio energico e perentorio. È chiaro che questo fare, queste clausole sentenziose sono anch’esse fortemente pertinenti a quella ricerca di un linguaggio capace di inventività, capace di presentare qualcosa che intimamente colpisca e solleciti il lettore. Si pensi per contrasto alle ariette sentenziose metastasiane, in cui l’impressività è legata viceversa alla massima facilità, alla melodia. Qui Leopardi cerca invece una impressività legata alla difficoltà, che deve suscitare nel lettore un lavorio, una specie di collaborazione e integrazione.
Si apre poi la seconda strofa in cui il tema centrale della educazione, eroico e civile, viene prendendo tanto piú consistenza:
O miseri o codardi
figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso
tra fortuna e valor dissidio pose
il corrotto costume. Ahi troppo tardi,
e nella sera dell’umane cose,
acquista oggi chi nasce il moto e il senso.
Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda
questa sovr’ogni cura,
che di fortuna amici
non crescano i tuoi figli, e non di vile
timor gioco o di speme: onde felici
sarete detti nell’età futura:
poiché (nefando stile,
di schiatta ignava e finta)
virtú viva sprezziam, lodiamo estinta. (vv. 16-30)
Qui la poesia ha abbandonato gli accenti inizialmente affettuosi e si è tutta legata coerentemente al tema fondamentale e allo stesso programma che si esprime in forme elaborate, concise, aperte da una forma di dilemma drammatico, che il Leopardi ha certamente risentito attraverso la lezione dell’Alfieri, nelle cui tragedie (e nella stessa Virginia, che naturalmente Leopardi ebbe qui molto presente, e non solo per l’ultima parte) sono continue battute concitate e perentorie a forma dilemmatica. Forma strettamente pertinente al fondamentale motivo di un contrasto cosí risoluto e anche a questo genere di linguaggio estremamente conciso, rapido, capace di destare nel lettore impressioni forti, energiche. Il dilemma è estremamente drammatico e pessimistico, donde la poca pertinenza delle osservazioni che sono state fatte (e persino dal De Sanctis che disse: «bel modo di felicitare la sposa e di celebrare le nozze!») sulla inopportunità di questo singolarissimo epitalamio che propone scelte cosí tremende, addirittura tra figli sventurati e miseri o vigliacchi. In realtà, l’inopportunità sta piuttosto in simili osservazioni, solo che si guardi a ciò che al Leopardi premeva e alla serietà del discorso che egli enunciava alla sorella Paolina.
È da questo dilemma, dalle battute drammatiche estremamente pertinenti a questo tipo di linguaggio, attraverso frasi piú ricche di vibrazione interna («Miseri eleggi [...] corrotto costume»), che nasce la lirica concisa ed energica, la poesia che si viene poi espandendo in questa strofa.
Cioè, dentro le forme piú rigide, piú energiche di questa poesia non manca al Leopardi la possibilità di far vibrare degli elementi anche piú profondi, come in questo caso il dissidio estremo posto dal «corrotto costume» tra la fortuna e il valore, e poi quell’intenso lamento sulla sorte degli uomini contemporanei («Ahi troppo tardi [...] il moto e il senso»), che è l’espressione piú sensibile, piú profonda della delusione storica leopardiana: cioè questo senso di essere nati tardi nella storia degli uomini, perché chi nasce adesso, chi adesso acquista moto e senso, è nato troppo tardi, nel momento in cui la vita umana volge dalla sera verso la disperata notte, quasi verso la cessazione della vita.
Il motivo conduttore della poesia, nelle sue forme piú tipiche, riprende con quella mossa estrema e in qualche modo anche eccessivamente inarcata: «Al ciel ne caglia». Ché (vuol dire il Leopardi) se questa è la sorte degli uomini e questa è la piega della storia, se ne occupi il cielo. Dove, si badi, non c’è nessun riconoscimento della provvidenzialità celeste, anzi c’è quasi un moto di disprezzo ulteriore: se ne occupi chi se ne dovrebbe occupare.
Invece, ciò che preoccupa il Leopardi è quella continua richiesta di responsabilità personale: la sorella Paolina non potrà certo riuscire a cambiare tutto il corso generale della storia, ma dovrà, per quello che le compete, cercare di forzare la situazione attraverso l’educazione dei figli; sua cura sia appunto soprattutto che i suoi figli non crescano «di fortuna amici». Dove, al solito, lo stile è sempre coerentemente complicato in forme negative, in gusto della inversione energica.
«[...] onde felici / sarete detti nell’età futura»: sicché sarete detti, tu madre ed essi figli, felici nell’età futura, di una singolare felicità, in quanto avete rifiutato la scelta piú facile della codardia, della viltà, del conformismo.
«Poiché (nefando [...] ignava e finta)»: anche qui si può cogliere bene il tipo di linguaggio e il movimento di questo canto, cioè la forte carica del disprezzo, dello sdegno leopardiano per una generazione, da una parte ignava, incapace di agire e dall’altra ipocrita, in quanto non riconosce il valore presente e poi, con suprema ipocrisia, lo riconosce quando l’uomo che ne era portatore è morto: «Virtú viva sprezziam, lodiamo estinta». Qui la sentenza si avvale del modulo retorico del chiasmo per dare la solita impressività energica alla canzone.
A queste due strofe segue la seconda parte della canzone che, malgrado alcuni momenti di alacrità poetica, ha indubbiamente un tono piú pesante, delle zone di maggiore opacità, di minore tensione: sono le strofe in cui Leopardi si rivolge alle donne con dei motivi che, mutuati anche dalla tradizione poetica, oscillano qualche volta verso una forma di omaggio un po’ piú debole e convenzionale alla bellezza e alle donne:
Donne, da voi non poco
la patria aspetta; e non in danno e scorno
dell’umana progenie al dolce raggio
delle pupille vostre il ferro e il foco
domar fu dato. A senno vostro il saggio
e il forte adopra e pensa; e quanto il giorno
col divo carro accerchia, a voi s’inchina.
Ragion di nostra etate
io chieggo a voi. La santa
fiamma di gioventú dunque si spegne
per vostra mano? attenuata e franta
da voi nostra natura? e le assonnate
menti, e le voglie indegne,
e di nervi e di polpe
scemo il valor natio, son vostre colpe? (vv. 31-45)
È certamente piú interessante, in questa strofa, la seconda parte in cui il solito, estremo contrasto tra l’entusiasmo e la corruzione presente dà luogo a forme piú concitate e piú intense, come in quella «santa fiamma di gioventú» che si spegne per mano delle donne incapaci di educare e di sollecitare la virtú degli uomini e dei loro ammiratori o amanti.
Tutto questo poi si ripercuote nella strofa quarta che tuttavia conduce a un finale che manifesta anch’esso le forzature e le cadute della sentenziosità:
Ad atti egregi è sprone
amor, chi ben l’estima, e d’alto affetto
maestra è la beltà. D’amor digiuna
siede l’alma di quello a cui nel petto
non si rallegra il cor quando a tenzone
scendono i venti, e quando nembi aduna
l’olimpo, e fiede le montagne il rombo
della procella. O spose,
o verginette, a voi
chi de’ perigli è schivo, e quei che indegno
è della patria e che sue brame e suoi
volgari affetti in basso loco pose,
odio mova e disdegno;
se nel femmineo core
d’uomini ardea, non di fanciulle, amore. (vv. 46-60)
L’elemento interessante della strofa (guida alle successive parti della canzone), è il senso dell’eroismo, dell’uomo che sfida i pericoli e della vitalità che ne consegue; ma la strofa nel suo insieme tende poi a quella clausola finale estremamente debole, sofisticata, inadeguata alla pressione poetica migliore di questa lirica.
La quinta strofa (in cui il Leopardi per incoraggiare nella sua prospettiva parenetica le donne italiane a educare alla virtú e all’eroismo i propri figli, magari insegnando a essi i danni e il pianto della virtú, introduce l’accenno alle madri spartane, alla giovinetta sposa spartana che «il fido / brando cingeva al caro lato», al fianco dell’amato marito, «e poi / spandea le negre chiome / sul corpo esangue e nudo / quando e’ reddia nel conservato scudo»), fa da trapasso alle ultime due strofe e alla figura di Virginia:
Madri d’imbelle prole
v’incresca esser nomate. I danni e il pianto
della virtude a tollerar s’avvezzi
la stirpe vostra, e quel che pregia e cole
la vergognosa età, condanni e sprezzi;
cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto
agli avi suoi deggia la terra impari.
Qual de’ vetusti eroi
tra le memorie e il grido
crescean di Sparta i figli al greco nome;
finché la sposa giovanetta il fido
brando cingeva al caro lato, e poi
spandea le negre chiome
sul corpo esangue e nudo
quando e’ reddia nel conservato scudo. (vv. 61-75)
C’è già in questo accenno alle spose spartane quell’impasto di delicato e di energico che, in qualche modo, recuperava anche i toni piú apertamente affettuosi dello stesso inizio della canzone, e da cui sarà sorretto l’episodio seguente di Virginia. In quest’ultima parte, che è certamente la zona poeticamente piú alta (su cui del resto il giudizio tradizionale ha sempre puntato), c’è il recupero dei toni che si erano venuti svolgendo precedentemente: il tono piú affettuoso del colloquio iniziale con Paolina e il tono eroico che si era svolto in strofe, a volte, senza dubbio meno poeticamente sicure.
Tutto viene raccolto nell’ultima parte, sicché s’impone (ciò che piú conta agli effetti di una comprensione di questa canzone e un po’ di tutte le poesie leopardiane) la constatazione che la poesia del Leopardi non è mai una poesia episodica: le zone piú intensamente poetiche di un testo lirico non sono mai concepite dal Leopardi, e valutabili da noi, come staccati episodi, ma nascono sempre dalla tensione che si è venuta accumulando nel resto della poesia, magari in forme non tutte poeticamente tradotte; e il testo nasce da un accumularsi interno di forza poetica, da un attrito che trova poi i suoi esiti piú veri, come nel caso di questa ultima parte della canzone a Paolina, particolarmente nella sesta strofa dove campeggia la figura della romana Virginia.
La Virginia del Leopardi è evidentemente sorretta dall’esempio alfieriano, da cui il poeta riprende atteggiamenti e a volte persino certi particolari del linguaggio, anche se indubbiamente il linguaggio leopardiano viene notevolmente spostato, di fronte a quello piú tipico o medio dell’Alfieri, in una forma di maggiore intimità e delicatezza.
La strofa è sorretta da questa esemplarità della figura della Virginia alfieriana dalla quale il Leopardi ricava anche un aspetto che ritroveremo poi nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo, cioè un piú forte desiderio di creare un personaggio con cui colloquiare. La strofa a Virginia è concepita infatti in forma di colloquio; vi ritorna quel tu affettuoso che già il Leopardi aveva adoperato per la figura concreta di Paolina e che ora rivolge a questa figura ideale in un nuovo colloquio (che poi è ulteriormente arricchito come in una doppia prospettiva di colloquio: il poeta si rivolge a Virginia, Virginia a sua volta parla con il padre), certamente uno degli accorgimenti poetici da cui è accresciuta la poesia di questa strofa:
Virginia, a te la molle
gota molcea con le celesti dita
beltade onnipossente, e degli alteri
disdegni tuoi si sconsolava il folle
signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri
nella stagion ch’ai dolci sogni invita,
quando il rozzo paterno acciar ti ruppe
il bianchissimo petto,
e all’Erebo scendesti
volonterosa. A me disfiori e scioglia
vecchiezza i membri, o padre; a me s’appresti,
dicea, la tomba, anzi che l’empio letto
del tiranno m’accoglia.
E se pur vita e lena
Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena. (vv. 76-90)
Il doppio colloquio viene reso appunto con quell’impasto di toni delicati ed energici che tra l’altro pertenevano anche allo stesso ideale femminile leopardiano, come risulta da alcuni pensieri dello Zibaldone in cui Leopardi dice che l’incanto della donna si fa supremo quando si mescola alla sua bellezza qualcosa di leggermente virile, sulla base fondamentale della sua intera femminilità[5].
Gli «alteri disdegni» di Virginia indicano questo fondo energico, eroico, mentre la componente di tenerezza è espressa dalla «molle gota» che la bellezza onnipotente carezzava, «molcea»: un verbo su cui Leopardi aveva lungamente indugiato, preferendolo a «blandia» (attestato dalle varianti)[6], a rendere proprio la delicatezza, il vagheggiamento, la cura compiaciuta della bellezza nell’ornare questa fanciulla eroica e tenera insieme.
La forma di contrasto, che abbiamo notato nella canzone in generale, qui si articola in una doppia gamma anche di aggettivi e di parole, dove il contrasto viene ripreso, ma come piú intimizzato, per corrispondere a questa zona di poesia fatta piú di un impasto delicato e tenero, che di aperti e piú crudi contrasti.
O si noti ancora il contrasto tra gli «alteri disdegni» del «folle signor di Roma», il tiranno Appio Claudio, e le «celesti dita»: anche questa un’espressione piú vaga a cui il Leopardi era giunto dopo tentativi come le «vezzose dita», le «rosee dita» con un chiaro ricordo della formula omerica: l’Aurora dalle «rosee dita».
La poesia poi progredisce e si arricchisce continuamente, nel seguito della strofa, anche mediante l’uso dei tempi, cioè l’imperfetto e il perfetto: il primo viene adoperato («Eri pur vaga, ed eri / nella stagion ch’ai dolci sogni invita») soprattutto per quel tanto che esso porta di piú facilmente nostalgico e rievocativo, in quanto nel passato l’imperfetto ristabilisce come una continuità; è un passato appunto non concluso, da cui Leopardi ricava anche quel tono come di altissima cantilena funebre, con la replicazione stessa del verbo («Eri pur vaga, ed eri»), che caratterizza il colloquio di Virginia con il padre. D’altra parte, il perfetto segna il punto decisivo dell’azione eroica ma inevitabilmente crudele del padre che «ruppe» il «bianchissimo petto», un’espressione, questa, dai modi sobri ed essenziali che attraverso un solo aggettivo introduce la luminosità della bellezza di Virginia; è una capacità tipica del Leopardi, soprattutto della sua poesia interamente matura, quella di far vibrare il sentimento, anche fortissimo, della intensa e casta sensualità femminile attraverso forme estremamente sobrie, piuttosto che attraverso forme opulente a cui poteva aver abituato il gusto neoclassico del tempo: si pensi alla «candida ignuda mano» del Risorgimento (v. 62) dove il fascino della bellezza femminile è tutto coagulato in quell’«ignuda».
«E all’Erebo scendesti / volonterosa»: poi, in questa inclinazione, tenera ed eroica, si apre il piú diretto nuovo colloquio di Virginia con il padre. «A me [...] m’accoglia»: si noti la bellezza e l’intimità dell’immagine della vecchiaia e della morte presentata da Virginia come alternativa a ciò che non vuole accettare, cioè il suo concedersi alle voglie del tiranno; una vecchiaia presentata come qualcosa che disfiora e scioglie la compattezza delle sue membra, del suo corpo giovanile, che togliendo il fiore della bellezza avvizzisce e fa appassire lentamente una vita senza nozze e senza amore.
A questa strofa, che è certo il culmine della poesia, ma non certamente dissociabile dalle componenti interne di tutta la canzone (ché anzi nasce su queste componenti portandole a un clima piú alto), segue l’ultima, in cui il Leopardi viene riportandosi a poco a poco dai toni iniziali in qualche modo piú vaghi e piú teneri, alla prospettiva eroica, parenetica e civile, di sollecitazione alla vita intera e degna cui egli aspirava:
O generosa, ancora
che piú bello a’ tuoi dí splendesse il sole
ch’oggi non fa, pur consolata e paga
è quella tomba cui di pianto onora
l’alma terra nativa. Ecco alla vaga
tua spoglia intorno la romulea prole
di nova ira sfavilla. Ecco di polve
lorda il tiranno i crini;
e libertade avvampa
gli obbliviosi petti; e nella doma
terra il marte latino arduo s’accampa
dal buio polo ai torridi confini.
Cosí l’eterna Roma
in duri ozi sepolta
femmineo fato avviva un’altra volta. (vv. 91-105)
«O generosa, ancora / che piú bello a’ tuoi dí splendesse il sole / ch’oggi non fa»: benché ai tuoi giorni risplendesse il sole piú bello, piú luminoso che oggi non fa; in questa bellissima e alta immagine (l’incupirsi della luce stessa, questa specie di malinconia della luce, piú lieta nel mondo antico e nel presente oscurata, appannata), il Leopardi introduce di nuovo la dimensione storica, cosí importante in questa canzone, tra il tempo che fu, vicino alla natura, all’illusione, tra il mondo degli antichi, di Virginia della Roma repubblicana, illuminato piú lietamente dal sole, e il tempo scaduto presente, della gretta ragione, della viltà.
«È quella tomba [...] nativa»: si noti la pregnanza di idee di questo inizio di strofa: per quanto la vita fosse, «O generosa», piú bella al tuo tempo e piú degna di essere vissuta e perciò fosse piú amara l’idea della morte, la tomba onorata dal pianto della terra natale è pur consolata e paga, soddisfatta.
«Ecco [...] sfavilla»: da questa gradazione di aggettivi ancora in qualche modo piú tenera, vengono su, attraverso i verbi, gli accenti piú risolutamente eroici, che si dilatano coerentemente nel resto della strofa con un’accelerazione sottolineata da questi “ecco” («Ecco alla vaga», «Ecco di polve [...] e libertade avvampa / gli obbliviosi petti»).
«[...] e nella doma / terra [...] torridi confini»: e sulla terra domata la forza latina si accampa dal buio polo ai torridi confini, cioè dal Nord al Sud, con un espandersi coerente delle immagini. Sono legati a questa ripresa piú attiva, di speranza, gli ultimi accenti piú grandiosi ed eroici, siglati poi dalla conclusione sentenziosa: cosí l’eterna Roma, fino allora sepolta in duri ozi, è ravvivata un’altra volta dalla morte di una donna (allude alla tragica fine di Lucrezia, che fu causa della cacciata dei Tarquini).
Alla canzone Nelle nozze della sorella Paolina, scritta tra l’ottobre e il novembre del ’21, fece seguito A un vincitore nel pallone, terminata l’ultimo giorno di novembre del 1821: canzoni dunque contigue e, come sappiamo, anche collegate da un abbozzo comune Dell’educare la gioventú italiana, che faceva pensare inizialmente a un’unica canzone, cui dal Leopardi furono poi preferite due canzoni collegate, ma autonome, tanto che per la seconda egli, prima di comporla, stese un particolare abbozzo, utile a rileggersi per capire, fra l’altro, come al di là di esso, nella effettiva stesura poetica, il poeta venisse a svolgere piú profondamente i suoi motivi.
Nell’abbozzo, intitolato A un vincitore nel pallone, è scritto:
Giovane atleta, avvezzati al plauso e a cose grandi, impara da questo onore ed entusiasmo che ora commuovi quanto è meglio la vita operosa e gloriosa che inerte ed oscura, impara a conoscere (gustare) la gloria [...] eccola qui, vedi com’è amabile, seguila, tu sei fatto per essa, impara a pensare a grandi imprese al bene della patria ec. Cosí una volta i greci ne’ loro giuochi s’avvezzavano ec. La vita è una miseria, il suo meglio è gittarla gloriosamente e pel bene altrui e della patria. Che piacere si prova in una vita oziosa conservata con tanta cura? Come mai si fuggono i pericoli? che cos’è il pericolo se non un’occasione di liberarsi da un peso? La gloria e le grandi illusioni non valgono piú di tutta la noiosissima vita? Ora questa città tua patria si pregia di te, come se la tua gloria fosse sua. Una volta se ne pregerà l’Italia, se tu vorrai. L’Italia, se mai la sorte ec. se mai si risovverrà di quell’antico nome di gloria che una volta ec. L’Italia antico nome ec.[7]
Di questo abbozzo gioverà soprattutto, fin da adesso, puntare sulla parte piú intensamente pessimistica ed energica insieme («La vita è una miseria [...] Che piacere» ecc.), poiché, come vedremo, è questo il centro della canzone piú autentico, piú attivo, che viene a spostare l’attenzione leopardiana dalla prospettiva piú direttamente pedagogica, piú raccordata anche al suo sentimento nazionale, storico, contemporaneo (di condizione di vita scaduta, di civiltà inferiore, di civiltà allontanatasi dalla natura), verso l’accento di carattere esistenziale, sul valore della vita, questa misera noiosissima vita che non vale la pena di conservare nella sua monotona lunghezza se non è intensa; sicché è meglio bruciarla in un unico atto coraggioso, di estrema e suprema vitalità, che riempie e soddisfa l’anima.
È indubbiamente questa la punta suprema della canzone che porta molto avanti (entro le Operette morali, il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez è centrato sul tema del pericolo, del repentaglio, dell’azzardo della vita), un tema che consuona piú che con una prospettiva solo italiana, con atteggiamenti europei dell’epoca romantica: si pensi almeno alla figura di Byron e, d’altra parte, nella letteratura italiana, a certi aspetti di Alfieri o di Foscolo.
Questo sfiorare il titanismo, il gusto dell’avventura per l’avventura, dell’azione per l’azione è un dato importante per comprendere come il Leopardi, pur vivendo nel chiuso di Recanati, avesse raccordi intimi e profondi con aspetti della mentalità del romanticismo addirittura europeo. Ma va comunque sottolineato come l’atteggiamento leopardiano, rispetto a quello piú generale del romanticismo del tempo, sia sempre contrassegnato da una forma piú sobria. Nel Leopardi non c’è mai sconfinamento verso il gesto compiaciuto del genio; in lui c’è sempre qualcosa di piú severo: il mettere a repentaglio la vita è legato al fortissimo e severissimo senso della vita intensa, che qui viene configurato sul margine supremo della vitalità condensata in un punto solo, preferibile alla vita-non vita, che ha le apparenze della vita, ma che effettivamente è morte perché non ha sensazioni energiche, generose illusioni.
La canzone ha un preciso riferimento a un celebre giocatore del pallone a bracciale (un gioco in quell’epoca diffusissimo e che in parte ancora continua, specialmente nelle Marche), un certo Carlo Didimi di Treia, un paese vicino a Recanati, che si era reso particolarmente noto con la sua prestanza fisica e la sua abilità sportiva e che poi fu attivo partecipe alle lotte risorgimentali.
Partendo da questo pretesto immediato, il Leopardi riprende stimoli letterari, non familiari alla sua prospettiva letteraria e poetica, il lontano Pindaro e, piú vicino nella tradizione lirica italiana, il Chiabrera, che appunto aveva composto tre canzoni dedicate a giocatori e vincitori del pallone[8]. Da tale pretesto il poeta trae un avvio di carattere pedagogico, soprattutto svolto nelle prime strofe della canzone che sono le piú direttamente pertinenti a questa prospettiva sollecitatrice per cui gli uomini, educati attraverso le gare agonistiche all’esercizio del vigore fisico, sono anche educati a un esercizio del vigore morale (secondo i ricordati principi dello Zibaldone sulla integralità fisica e morale dell’uomo, contrapposta continuamente a ogni forma di ascetismo, di rinuncia agli aspetti fisici della vita umana).
Da ciò si muovono le prime strofe, indubbiamente le piú esteriori, le piú faticose e meno toccate dalla poesia, sicché la punta migliore di questa canzone la troveremo nel suo finale, ma, ancora una volta, non per un improvviso, miracoloso apparire della poesia in forma episodica, ma perché Leopardi ha approfondito continuamente il suo tema dalle forme piú esterne alle forme piú intime:
Di gloria il viso e la gioconda voce,
garzon bennato, apprendi,
e quanto al femminile ozio sovrasti
la sudata virtude. Attendi attendi,
magnanimo campion (s’alla veloce
piena degli anni il tuo valor contrasti
la spoglia di tuo nome), attendi e il core
movi ad alto desio. Te l’echeggiante
arena e il circo, e te fremendo appella
ai fatti illustri il popolar favore;
te rigoglioso dell’età novella
oggi la patria cara
gli antichi esempi a rinnovar prepara. (vv. 1-13)
Anche se questa prima strofa serve di passaggio dal pretesto agonistico alla preparazione dei giovani italiani all’attività eroica, indubbiamente nel suo insieme è pesante e opaca, pur non mancando qua e là di certe balenanti immagini piú forti. Si pensi all’immagine piú ricca di poesia, della piena veloce poi ripresa nello stesso finale quando si tradurrà in maniera molto piú profonda nel «flutto» delle ore «putri e lente».
Del barbarico sangue in Maratona
non colorò la destra
quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
che stupido mirò l’ardua palestra,
né la palma beata e la corona
d’emula brama il punse. E nell’Alfeo
forse le chiome polverose e i fianchi
delle cavalle vincitrici asterse
tal che le greche insegne e il greco acciaro
guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
nelle pallide torme; onde sonaro
di sconsolato grido
l’alto sen dell’Eufrate e il servo lido. (vv. 14-26)
La seconda strofa vuole intrecciare i due motivi, quello ginnico, sportivo e quello eroico, con il solito riferimento agli antichi dai quali gli italiani devono prendere esempio. I greci educati alle gare olimpiche furono forse gli stessi che poi combatterono a Maratona contro i Persiani: qui, indubbiamente, la strofa ha una pressione piú intensa di immagini, soprattutto nel quadro finale della fuga dei Persiani («de’ Medi fuggitivi [...] torme»), e dello sconsolato grido dei fuggitivi che fa risuonare il mare dell’Eufrate e il «servo lido». Ma questa maggiore base di slancio, ancora come ingorgata e contorta, trova il suo risultato piú profondo dalla strofa terza in poi.
La terza strofa è gremita di idee nascenti, di elementi provenienti dallo Zibaldone, che qui sono riprospettati poeticamente, con quella volontà di collaborazione di pensiero e di poesia che ci rimanda anche a una riflessione dello Zibaldone molto importante per la poetica leopardiana di questo periodo.
Leopardi, che pur aveva continuamente insistito nello Zibaldone sulla insociabilità, sulla inimicizia giurata tra la filosofia e la poesia, tuttavia a un certo punto, in un pensiero del 24 luglio 1821, scrive:
Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina all’impossibile, non sarà che rarissima e singolare. [1383][9]
Questa osservazione si inserisce nel tentativo leopardiano di fare poesia filosofando e filosofia poetando. Da questa volontà nasce anche quel che in questa strofa c’è di affollato, di gremito; in qualche modo si può accettare un’osservazione del De Sanctis (ma diversamente utilizzandola), che si riferiva proprio per questa strofa a qualcosa di compresso, di aggruppato: «Manca a questi concetti, aggruppati e compressi, spazio e luce; manca alla forma disinvoltura e talora intoppi nella frase faticosa».
Quello che va notato, infatti, per capire anche questa poesia, evidentemente non tra le maggiori, è che non si tratta solamente di concetti, come dice il De Sanctis, ma si tratta di quel tentativo di unire concetti e immagini, filosofia e poesia. Tuttavia, se l’osservazione del De Sanctis giustamente evidenzia l’aspetto faticoso della canzone, va però tenuto presente che esso nasce da questa alta ambizione del Leopardi al raggiungimento dello stile energico, conciso e a quella che lui chiamava moderata difficoltà, che viene appunto a sollecitare il lettore, mettendo in movimento il suo pensiero e la sua fantasia; solo che, in questo caso, la moderata difficoltà è divenuta eccessiva.
In questa strofa il Leopardi si rivolge al giovane atleta a cui parla e insieme a se stesso e agli uomini:
Vano dirai quel che disserra e scote
della virtú nativa
le riposte faville? e che del fioco
spirto vital negli egri petti avviva
il caduco fervor? Le meste rote
da poi che Febo instiga, altro che gioco
son l’opre de’ mortali? ed è men vano
della menzogna il vero? A noi di lieti
inganni e di felici ombre soccorse
natura stessa: e là dove l’insano
costume ai forti errori esca non porse,
negli ozi oscuri e nudi
mutò la gente i gloriosi studi. (vv. 27-39)
Si noti, anzitutto, l’affollarsi e l’incalzarsi delle domande ansiose (ben quattro interrogativi), entro le linee della costruzione in qualche modo piú regolare della strofa e del metro: un ritmo sintattico-poetico estremamente concitato, che si discosta molto da un semplice accumularsi di nudi e puramente filosofici concetti. D’altra parte, quella difficoltà che da moderata diventava eccessiva, si verifica nella stessa spiegazione letterale di questo brano per la quale si sono verificati da parte dei commentatori anche netti contrasti di interpretazione.
Il discorso poetico si svolge qui in una specie di doppia prospettiva. La prima parte, in cui Leopardi si rivolge piú apertamente all’atleta, è un’interrogazione retorica: come potrai dire vano e inutile quell’esercizio del rischio, del giuoco? a cui egli viene portando il pretesto della canzone; come potrai dire vano ciò che sprigiona e agita il giuoco del rischio, ciò che viene a scuotere quelle faville rimaste nell’animo umano anche nelle epoche di decadenza?
Leopardi, in una costruzione estremamente ardua, vuole appunto mostrare come l’animo umano, anche nella presente decadenza, anche nelle epoche lontane dalla pienezza di vita degli antichi, può essere sollecitato dal giuoco, dal rischio, dall’azzardo, dal mettere a repentaglio la vita; e questo è tutt’altro che vano, è in qualche modo associato a quelle illusioni che saranno dette vane da un punto di vista puramente e grettamente razionalistico, ma che viceversa sono costitutive della vita piena e intensa cui egli aspira.
Quando si passa alle altre due domande, la prospettiva cambia ed egli allora dirà: d’altra parte, che cosa sono le opere dei mortali da quando il sole percorre i campi del cielo, se non una forma di giuoco? e, d’altra parte, che cosa di piú hanno le opere dei mortali, che misurate su di un piano razionale sono vane? Quindi, il giuoco ha tanta dignità quanta ne avrebbero altre cure e preoccupazioni mentali.
E per la quarta domanda: «ed è men vano [...] il vero?» (forse che la verità cruda è meno vana della menzogna?), Leopardi implicitamente risponderebbe che la menzogna, l’illusione che offre la vita, è piú consistente, pur nella sua vanità, che non l’arido e gretto vero. Le quattro domande vanno quindi situate in una disposizione assai diversa, convergendo in questa valorizzazione del giuoco.
D’altronde, anche in questi periodi non manca la luce della poesia che si può ritrovare in quel semplice accenno alle «meste rote [...] instiga»; ci si può chiedere se Leopardi abbia voluto dire semplicemente “da che mondo è mondo”, oppure abbia voluto riprendere l’immagine del sole che splendeva piú bello ai giorni passati che non nel nostro tempo, riaccennando a una specie di immalinconimento della luce nella decadenza del mondo. La frase si presenta come ricca di una sua ambiguità; tutto sommato, il senso fondamentale diventa però di carattere piú generale, universale, e può essere anche il segno (pensando poi allo svolgimento successivo delle canzoni di questo ciclo) dell’intrecciarsi di una volontà di distinzione tra la delusione storica relativa al presente e il senso del passato, con una dimensione piú generale, piú esistenziale, che viene premendo entro le pieghe della distinzione di carattere storico.
«A noi di lieti / inganni»: qui tutto viene piú chiarito nel senso che si indicava: la stessa natura ha voluto soccorrere noi uomini con i lieti inganni e con le felici larve dell’illusione. Questo conferma sempre di piú la positività del giuoco, del rischio con cui la natura stessa ha voluto confortare la nostra vita, altrimenti squallida e misera; mentre, là dove il corrotto costume di epoche decadute, allontanatesi dalla natura, non ha dato stimolo alle generose illusioni, gli uomini hanno cambiato le loro gloriose occupazioni con gli ozi oscuri e nudi.
A questa strofa, che è certamente la piú impegnata e in certo modo anche la piú ricca di spunti, svolti poi nella poesia futura, segue la quarta in cui è ripresa piú direttamente la dimensione di carattere storico. Come si è visto, nell’abbozzo in prosa di questa canzone, Leopardi insisteva su un certo moto di speranza piú vicino al finale della canzone Nelle nozze della sorella Paolina, che, almeno attraverso l’esempio di Virginia e quello implicito di Lucrezia, finiva in un movimento di libertà, di trionfo del moto popolare a indicare che, su questi esempi, le donne italiane nuove potessero alimentare la rinascita della patria.
Nella elaborazione effettiva della canzone, invece Leopardi fu come sopraffatto dalla versione di carattere piú catastrofico, piú pessimistico: la dimensione storica applicata all’Italia lo porta a vedere una rovina crescente, addirittura il prossimo squallore delle città italiane, disabitate, abbandonate dalla vita; e da questo nascerà, nell’ultima strofa, l’invito al giovane (poiché la patria è morta) a prendere una specie di responsabilità su se stesso e sulla propria coscienza e a reagire alla vita inerte in cui son caduti la sua patria, il suo tempo, a sfidarli con il gusto del rischio e dell’azzardo.
La quarta strofa è soprattutto configurata in un quadro cupo, con tinte e passaggi assai coerenti nella loro grandiosità squallida, che possono persino far pensare a un certo recupero di questi toni da parte del Leopardi all’altezza degli ultimi canti, ma con l’avvertenza fondamentale che le tinte, i colori cupi della Ginestra nasceranno da un linguaggio indubbiamente molto piú profondo, piú intimo, piú “persuaso”:
Tempo forse verrà ch’alle ruine
delle italiche moli
insultino gli armenti, e che l’aratro
sentano i sette colli; e pochi Soli
forse fien volti, e le città latine
abiterà la cauta volpe, e l’atro
bosco mormorerà fra le alte mura;
se la funesta delle patrie cose
obblivion dalle perverse menti
non isgombrano i fati, e la matura
clade non torce dalle abbiette genti
il ciel fatto cortese
dal rimembrar delle passate imprese. (vv. 40-52)
Quel tipo di stile arduo a cui il Leopardi in questo momento mirava, porta anche a una specie di chiusura, di difficoltà effettiva, che ha riscontro nel carattere inameno dei paesaggi, rappresentato non con tinte sciolte e delicate, ma condensate e come brunite.
Verrà forse un tempo che gli armenti potranno insultare, cioè saltar sopra le rovine delle moli italiane e che i sette colli di Roma proveranno l’aratro: si apre un paesaggio incentrato nei versi fondamentali, i versi della «cauta volpe» e dell’«atro bosco», immagini densamente poetiche, in cui Leopardi portava questo senso di abbandono addirittura a una vita semplicemente animale, sia attraverso la «cauta volpe», con il suo che di guardingo, di diffidente, col suo passo felpato (l’opposto in qualche modo della vita piena, che prima poteva essere nelle città); sia attraverso il mormorare dell’«atro bosco», in cui si vede come il poeta tenda a recuperare nel suo linguaggio, che pretende alla novità, stimoli della poesia che gli sembrava piú congeniale, quella di Orazio, con il suo stile energico e conciso, quella di Virgilio, per la suggestione anche misteriosa di questo squallido quadro, o quella del preromantico Ossian (da cui indubbiamente vengono elementi precisi, persino nell’immagine della volpe: «Ed affacciarsi alle fenestre io vidi / la volpe, a cui per le muscose mura / folta e lungh’erba iva strisciando il volto» – Cartone, vv. 157-159). Ma di questo procedimento piuttosto singolare del poeta, il quale riprende latini e preromantici, va ben avvertito che la sua è una via molto diversa da quella del neoclassicismo piú dorato e levigato, soprattutto per il suo tipo di linguaggio sempre piú denso, piú folto, piú ricco di suggestione e di sensibilità.
Alla patria infelice, o buon garzone,
sopravviver ti doglia.
chiaro per lei stato saresti allora
che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
nostra colpa e fatal. Passò stagione;
che nullo di tal madre oggi s’onora:
ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
beata allor che ne’ perigli avvolta,
se stessa obblia, né delle putri e lente
ore il danno misura e il flutto ascolta;
beata allor che il piede
spinto al varco leteo, piú grata riede. (vv. 53-65)
Quest’ultima strofa è certamente quella che porta la poesia alla sua punta decisiva e piú alta, quella che ci rivela piú in profondo come dalla prospettiva nazionale e pedagogica il Leopardi tenga a toccare un tema piú profondo e piú intimo.
Il poeta dice: vista la morte della patria, il buon giovane deve dolersi di sopravvivere a essa.
La soluzione qui affacciata è quella appunto dell’uomo che in tanta miseria e desolazione esercita la sua dignità, il suo eroismo nell’incontro con il pericolo, nell’azzardo e nel rischio. Dice appunto il poeta: tu saresti stato «Chiaro per lei», illustre a favore della patria, quando essa rifulgeva del suo serto, di cui è spoglia adesso per colpa nostra e del fato; ma «Passò stagione», ma è passato quel tempo. Leopardi si immerge totalmente in questa dimensione di un presente scaduto, disperato, nel pieno della sua delusione storica. «Che nullo di tal madre oggi s’onora»: perché nessuno si onora di questa madre; «Ma per te stesso al polo ergi la mente»: ma, poiché non puoi agire per la patria, perlomeno alza i tuoi intendimenti al cielo, a piú ardua meta, cioè agisci per te stesso.
«Nostra vita [...] spregiarla»: a che ti serve, che valore intrinseco ha la vita se non è ricca, eroica? Serve solo a essere disprezzata.
«Beata [...] obblia»: beata, felice (ma evidentemente la parola scelta proprio per suono vuol rendere questa improvvisa piena espansione, replicata dall’uso del doppio «Beata»), quando avvolta nei pericoli dimentica se stessa in quanto vita inerte, priva delle generose illusioni; «né delle putri [...] ascolta»: questo rischio del pericolo volontario, la distrae da quella suprema miseria (che poi Leopardi chiamerà la noia), di dover stare a misurare il danno di ore lente e putri.
La frase veramente poetica è fortissima; Leopardi ha reso il senso di un tempo senza vita, di una vita senza vita, che è peggio della morte, che consiste solo nell’adeguarsi al marcire delle ore, “putri ore”; non solo lente (laddove le ore vitali, piene d’intensità, sono celeri e rapide), ma «putri»: una ripresa della parola latina per accentuare e quasi fisicizzare, materializzare (come tante volte fa il grande Leopardi, la cui parola è tutt’altro che semplicemente trasparente e aerea) questa impressione del tempo inerte, del tempo morto, delle ore che marciscono in cui si putrefanno e marciscono gli uomini, come un corpo senza sangue è destinato a putrefarsi e a marcire. Un ridursi della vita a una tremenda auscultazione del passare inutile delle ore, su cui Leopardi nelle lettere tante volte ha insistito («La mia vita è scandita sui tocchi dell’oriuolo») e che qui ha reso poeticamente attraverso questa immagine del tempo inerte, paragonato a un fiume limaccioso, al flutto delle ore «putri».
Evidentemente, non può esser seguito per questa canzone il giudizio espresso da Luigi Russo, nel suo commento, secondo il quale qui non ci sarebbe ombra di poesia. Certo, la canzone nel suo insieme non è una delle maggiori realizzate dal Leopardi, ma dire che non vi compare ombra di poesia è proprio negare quello che cosí fortemente viene in rilievo dai movimenti poetici, di cui la canzone è piena e ricca e che si consolidano a volte in immagini alte e profonde; come questa, con cui il poeta, disperato amante della vita intensa e piena, e quindi tutt’altro che il solito personaggio idillico (il quasi Metastasio, ecc.) o il «sombre amant de la mort», come il De Musset (in questo caso piccolo romantico) chiamò il secondo lui «pauvre» Leopardi, rende appunto persino il suo disgusto morale e fisico tradotto poeticamente tramite l’immagine delle putride ore.
«Beata allor [...] piú grata riede»: beata quando, toccato quasi il limite della morte, il fiume Lete, piú grata riede la vita. Su questa parola «grata» ci sono delle varianti piuttosto indicative: «piú bella», «piú vaga», «piú dolce», «piú degna»; quest’ultima, pur scartata, è stata dal poeta riassorbita nella parola «grata» secondo una scelta piú pertinente anche a certi elementi del severo e profondo edonismo leopardiano[10].
Una notazione edonistica che ricorda «E il naufragar m’è dolce in questo mare», la dolcezza provocata dal sentimento dell’infinito, che non è legata a una specie di ebbrezza spiritualistica, ma è saldamente ancorata al fondo sensistico leopardiano; «m’è dolce», e qui «grata»: la felicità per il Leopardi è piacere. Di qui la preferenza in quest’ultimo verso per una parola piú convincente e coerente; ma quell’esitazione sulla parola «degna» (pur riassorbita in «grata») è indicativa assai delle prospettive del Leopardi, per il quale appunto il repentaglio dell’uomo è sentito in un ritorno alla vita: in sostanza, l’uomo, mettendo a repentaglio se stesso, coglie la vita nella sua massima vitalità e insieme si prepara lealmente a una vita piú degna, senza paure, senza viltà, disposta alla poesia e alle azioni.
Basterebbe riferirsi a versi di questo tipo, per smentire completamente certe immagini consunte e profondamente sbagliate del Leopardi, come quella limite, nell’attività di quel grande critico, di Benedetto Croce che non intese quale fosse il centro della personalità leopardiana, poiché il Leopardi non fu affatto uno scettico, un uomo da cui la vita non era amata[11].
Lo stesso confronto col Foscolo (che per il Croce diventa uno dei motivi della condanna del Leopardi), tra il Foscolo che vive, che sviluppa un pensiero concreto, che ha indubbiamente una vita ricca di avvenimenti, piena di alti gesti tutt’altro che retorici, di amori concreti, piena di rischi, che fu ferito in un combattimento ravvicinato alla baionetta, che ebbe duelli, e il Leopardi che non vive, che non ha avuto amori, che, probabilmente, come dissero i curiosi e pettegoli critici di un certo periodo, non conobbe l’amore fisico; se alla parola “agire” diamo un senso piú profondo, non esteriore, non materiale, se la misuriamo nel profondo della poesia del Leopardi e del suo atteggiamento di fronte alla vita, in lui l’azione rivela qualcosa di molto piú energico e oltretutto di molto piú schietto, di essenziale, denso e puro, lontanissimo da ogni gusto del bel gesto che tante volte aduggia certi atteggiamenti dei poeti romantici (a parte il fatto che il Leopardi ha agito nella storia con la sua poesia e con la sua problematicità in maniera molto piú profonda del Foscolo).
1 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 9-10.
2 Tutte le opere, I, p. 332.
3 Tutte le opere, II, p. 568.
4 Tutte le opere, I, p. 1390.
5 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 431-432, 433, 464.
6 Per le varianti di Nelle nozze della sorella Paolina cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 160-167.
7 Tutte le opere, I, p. 74.
8 Le liriche di Chiabrera sono: Per Cintio Venanzio da Cagli vincitore ne’ giuochi del pallone celebrati in Firenze l’estate dell’anno 1619; Per i giuocatori del pallone in Firenze, l’estate dell’anno 1619; Per il giuoco del pallone, ordinato in Firenze dal Granduca Cosmo II, l’anno 1618.
9 Tutte le opere, II, p. 400.
10 Cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., p. 192.
11 Cfr. B. Croce, «Leopardi», in Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1923 (19647) pp. 100-116 (già pubblicato ne «La Critica», vol. XX, 1922, pp. 193-204).